venerdì 7 ottobre 2011

Partite Iva, una vita spericolata!

Sono 8,8 milioni, continuano a crescere: +177 mila nel 2009. Scarsa attenzione, poca politica e rischi tutti i giorni


SI UTILIZZA QUESTO STRUMENTO PER RENDERE PIÙ FLESSIBILE IL MERCATO DEL LAVORO.

Il numero sicuramente fa impressione e non c'è alcun confronto possibile con altri Paesi del G8: a fine marzo 2009 risultavano aperte in Italia 8,8 milioni di partite Iva. Poco meno dell’intera popola­zione della Lombardia, anziani e bambini inclusi. Un esercito che non si è fatto mettere in fuga nemmeno dalla Grande Crisi. Le ultime stime provenienti dal­l’Agenzia delle Entrate ci dicono infatti che nei soli primi quattro mesi di quest’anno c’è stato un ulterio­re saldo positivo, le aperture hanno nettamente supe­rato le cessazioni d’attività: più 177 mila. Il ministro Giulio Tremonti parlandone nei giorni scorsi a Mila­no l’ha catalogato come un indice di vitalità, un altro segno della capacità di reazione dimostrata dal siste­ma Italia.
Ma chi sono i nostri connazionali che sfidando Prodotto interno lordo in caduta verticale e recessio­ne lunga hanno comunque deciso di mettersi in pro­prio, di sfidare i marosi del mercato? Il maggior con­tributo di nuove start up viene dalle attività immobi­liari e dai servizi alle imprese (+51 mila) ma ci sono 20 mila ditte individuali in più nell’agricoltura e 22 mila nelle costruzioni. Di più non è possibile saper­ne, vuoi perché si tratta di dati recentissimi vuoi so­prattutto perché quello delle partite Iva è un pianeta ancora poco conosciuto. Si è fatto in passato dell’in­telligente marketing politico sull’esistenza di un po­polo dell’Iva — soprattutto da parte del centrodestra — ma si fatica ancora ad incrociare con una parven­za di scientificità i dati che li riguardano. Eppure tra Camere di Commercio, Inps, Istat e ministro delle Fi­nanze i numeri abbondano — sostiene l’ex ministro Rino Formica — ma non c’è coordinamento e forse a ritardare i lavori delle istituzioni e dell’accademia c’è una piccola conventio ad excludendum. È la tesi di Giuseppe Bortolussi (Cgia Mestre) secondo la quale in Italia le analisi si fanno solo per le imprese che hanno da 20 addetti in su, perché «persiste un atteg­giamento snobistico da parte della cultura economi­ca ». Così capita che indagini diffuse pressoché nello stesso periodo sui medesimi fenomeni od analoghi dicano cose differenti come è accaduto di recente. Movimprese (Unioncamere) sostiene che con la Crisi le cessazioni prevalgono, al ministero risulta, sulla base del dato delle partita Iva già citato, esattamente il contrario. 
I «magnifici» anni 80 
Il fenomeno del popolo dell’Iva inizia negli anni 80 quando comincia quella che Giuseppe Vitaletti, l’eco­nomista che per lungo tempo lo ha studiato in virtù della stretta collaborazione con Tremonti, chiama «la ristrutturazione terzistica» dell’economia italia­na. Lo strumento tecnico per diventare imprenditori di se stessi si rivela agile e snello e comunque nel Paese c’è voglia di provare a diventare capitalisti per­sonali, a sfidare il classismo e a trovare un lavoro di­verso dall’impiego pubblico o dall’indossare la tuta blu con il logo della grande azienda. Non è un feno­meno all’americana ma tutto sommato un po’ gli so­miglia, è un liberismo implicito che seppur mai teo­rizzato finisce per guidare l’azione di tanta, tantissi­ma gente. Vitaletti ha avuto modo in passato di defi­nire i nuovi microimprenditori gente che «vive sulla voce, governa il lavoro parlando e non emanando re­golamenti scritti» proprio per sottolineare anche nei modelli di impresa la discontinuità, la provenienza dal mondo reale e non dai manuali di management.
Il fenomeno incontrò qualche simpatia negli am­bienti socialisti di allora — le destre erano stataliste e il garofano era grande amico della consulenza — e non è un caso che ancora oggi chi sostiene la lunga marcia del popolo delle partite Iva venga da lì o comunque con­servi il Dna di quel patrimonio culturale, un piccolo fil rouge che ha resistito nel tempo pas­sando attraverso la Prima Re­pubblica, i giudici, i governi tecnici e la nascita del bipolari­smo. Le poche indagini che ri­guardano le partite Iva si spin­gono a sostenere che in media lavorano 7 ore alla settimana in più dei lavoratori dipenden­ti ma sono più soddisfatti per­ché «hanno trovato il modo di farsi valere». Interrogati qual­che tempo fa dall’Ires-Cgil sul­l’eventualità di scambiare la loro attività in proprio con un’assunzione, il 43% sorprese i ricercatori ri­spondendo di non averne nessuna voglia. E così so­no rimasti a vivere sul filo del rasoio, sono «lavorato­ri autonomi di ceto medio» — come li ha classificati il sociologo Costanzo Ranci — che spesso vanno a carte quarantotto non per imperizia personale ma perché semplicemente un loro committente a monte o un fornitore a valle fallisce. 
Senza rappresentanza né lobby
In tutti questi anni nonostante che il popolo del­­l’Iva non sia mai dimagrito non ha però trovato mo­do di organizzarsi. Nemmeno con una newsletter che contasse davvero. Con i sindacati si guardano in cagnesco da sempre e si considerano avversari divisi da un muro, ma «non hanno svolto appariscenti ope­razioni di lobby» (Ranci) e non hanno veri e propri portavoce. In campagna elettorale qualche candidato soprattutto al Nord trova il modo di citarli nei propri comizi ma non c’è nemmeno un piccolo intergruppo parlamentare che almeno a parole si sia proposto di volerli rappresentare. La loro unica controparte è ri­masto lo Stato o meglio il fisco.
Naturalmente dentro il gran calderone delle parti­te Iva c’è di tutto. Non esiste un indice di rotazione che ci possa aiutare a capire quanto frequentate sia­no le loro porte girevoli, di sicuro però aperture e chiusure sono molto ravvicinate e in qualche caso spuntano affari poco leciti come le cosiddette frodi Carosello che servivano a gonfiare l’export e a rende­re difficile l’azione di repressione. Negli anni tra il ’98 e il 2003 fu notato come di partite Iva se ne apris­sero più al Sud che al Nord, addirittura 5 mila l’anno in Calabria e Campania e che alla fin fine si trattava di pizzerie al taglio, parrucchieri ed estetisti. Un ter­ziario a bassa intensità. Molto spesso, come annota Stefano Fassina, economista e consigliere di Vincen­zo Visco al ministero delle Finanze, «una partita Iva che abbia un solo committente è un controsenso, non vive liberamente sul mercato, è legato a doppio filo a un’unica azienda».
Un flash: la Rai è tra i principali datori di lavoro delle partite Iva. Ogni anno regola pagamenti a 380 mila di esse, si va dall’impresa terzista che fornisce telecamere o arredi alla tv di Stato fino ai coreografi e persino alle comparse che se vogliono apparire in una fiction devono tenere il loro registro. Negli ulti­mi anni, poi, si è sviluppata in quantità che non è facile fotografare anche un’altra tendenza: utilizzare la partita Iva come strumento per flessibilizzare il mercato del lavoro. Invece di assumere un dipenden­te — che lavora persino full time — gli si suggerisce di aprire la sua bella partita Iva. E in qualche caso gli si fornisce anche la consulenza amministrativa per riempire registri e moduli. Il settore maggiormente indiziato per quest’uso «improprio» è quello delle costruzioni e la vicenda è seguita con una certa trepidazione dai sindacati di ca­tegoria. Non è convinto che si tratti di un fenomeno di massa Renzo Bellicini, direttore dell’ufficio studi del Cresme che lo fa rientrare nella più ampia riorga­nizzazione produttiva del mattone italiano, «dopo Tangentopoli questo settore si è completamente bal­canizzato e la dimensione media delle imprese è di 2,4 addetti. Non c’erano più i grandi lavori e allora ci si è buttati a costruire il bagno della signora Maria». Però i sindacalisti, specie del Nord e del Nord Est, come Luigi Copiello segretario della Cisl Veneto, se­gnalano come questa frantumazione stia facendo se­gnare un’ulteriore accelerazione e stia sminuzzando anche i rapporti di lavoro. «Ma le pare che esistano i muratori a part time?». In Veneto e Friuli può capita­re così che cittadini della ex Jugoslavia per dare l’into­naco a una casa aprano la partita Iva per assecondare una specie di outsourcing amministrativo delle im­prese che per questa via risparmiano all’incirca dodi­ci- tredici punti di contribuzione.
Due milioni sono inattive
Ma proviamo a vedere meglio dentro l’universo di quelle 8,8 milioni di partite Iva. La cautela statistica è d’obbligo e tutte le fonti istituzionali preferiscono parlare di stime per la giusta preoccupazione di non sbagliare. E allora quante sono veramente le partite Iva attive? Se prendiamo gli ultimi dati ufficiali, quel­li pubblicati poche settimane fa e che si riferiscono alle dichiarazioni fiscali presentate nel 2007 a versare l’Iva — e ad essere quindi in piena attività — sono 5,4 milioni tra microimprenditori e professionisti. A questi si possono aggiungere almeno un milione tra medici, tassisti, agricoltori e imprese di pompe fune­bri che sono esentati dal presentare la dichiarazione ma hanno la loro brava partita Iva e si arriva così a un totale vicino a 6,4-6,5 milioni. Non ci sono statisti­che internazionali comparabili ma chiunque abbia minimamente studiato il fenomeno sostiene che tan­ta disponibilità di gente a correre il rischio d’impresa è un ben di Dio che nessun Paese altro ha.
I «senza nome» dell’economia. Naturalmente questi 6,5 milioni di partite Iva in attività vanno divise a loro volta tra ditte individuali, società di persone e società di capitale (70% le prime e 15% ciascuno le altre) ma il risultato vero resta il medesimo: l’Italia gode di una riserva di imprendito­rialità straordinaria. Che però rischia se lasciata a se stessa, come dice Vitaletti, di «operare un rigetto strutturale della politica». Una separazione testimo­niata anche dalle carenze di lessico. Li si identifica come «Partite Iva» come se si chiamassero i giornali­sti «Gli articolo uno» perché la loro condizione di di­pendenti è regolata dal primo articolo del Ccnl o an­cora se si identificassero tutti i lavoratori dipendenti con l’appellativo «I modello centouno», prendendo il termine dal modulo che ricevono dalle aziende ma­dri quando occorre presentare al fisco la dichiarazio­ne dei redditi. L’immaginazione sociopolitica, pur co­sì fertile in Italia, si è come fermata a termini come «capitalisti personali» o «postfordisti» — neologi­smo amato dalla sinistra che anche in questo caso conferma di avere nel mito Ford l’alfa e omega del suo linguaggio economico — non hanno mai trova­to grande successo e popolarità. Una storia speculare a quella del terziario italiano che dovrebbe avere al­meno 40 anni e invece è rimasto un eterno adolescen­te. «Puoi avere la Mercedes e la villetta ma se soffri della mancanza di considerazione resti comunque un outsider» commenta Bortolussi, che racconta an­che come molti avvocati e commercialisti chiedano, declassandosi, un posto da impiegato ma vogliano a tutti i costi restare iscritti all’albo professionale. Per­ché ai loro occhi comunque fa status e anche per non abdicare definitivamente all’eventualità di mettersi in proprio. È chiaro che 8,8 milioni di partite Iva, tolti anche i due milioni di inattive o che comunque sfuggono ai rilievi del fisco, finiscono per farsi tra loro una con­correnza bestiale. Si parla tanto di liberaliz­zazioni ma è questo il settore in cui in Italia la concorrenza è più spietata. Quasi il pro­totipo della società del rischio. Ma nono­stante non esistano barriere all’ingresso come sottolineano tut­ti gli osservatori — da Vitaletti a Fassina — e la battaglia per soprav­vivere sia pane quoti­diano, il popolo del­­l’Iva non ha mai susci­tato le simpatie dei mercatisti più intran­sigenti che l’hanno considerato da sempre il retrobot­tega dell’economia, una materia di cui non è serio e nobile occuparsi. Certo se si guarda alla distribuzio­ne sul territorio — come invita a fare Formica pri­ma di pronunciare giudizi ultimativi — le in­congruenze saltano fuori. In testa c’è la Lombardia, che da so­la ospita quasi il 20% del popolo dell’Iva, il Veneto ne ha un nume­ro inferiore sia alla Campania, sia al Lazio. Secondo l’ex mini­stro un vero check up del feno­meno Iva dovrebbe essere condot­to localmente incrociando i dati del­le aperture, il gettito e la produzione del territorio. Per questa via si arriverebbe a circoscrivere le aree grigie e a ripristinare «lo spirito originario, quello di favorire la vitalità im­prenditoriale ». Ma proprio per questo, aggiunge For­mica, è ormai necessario riformare il modello favo­rendo gli accorpamenti e rinunciando alla cifra mon­stre degli 8,8 milioni. Nell’attesa di un futuro migliore il centrodestra al potere è convinto che, grazie all’introduzione del forfettone per i redditi sotto i 30 mila euro e alla possibilità di splittare il reddito tra moglie e mari­to, molto — se non moltissimo — si sia fatto in termini di fisco leggero e di conseguenza qualsiasi orientamento antigovernativo sarebbe quantome­no ingiustificato. Non la pensano così alla Cgia di Mestre e mantengono un atteggiamento di fiera op­posizione alla riformulazione in atto per gli studi di settore, lo strumento fiscale che serve a misurare su base statistica entrate e fatturato delle partite Iva. «C’è il rischio concreto di una moria simile a quella che ci fu con la minimum tax» dicono. E i micro-imprenditori del Nord Est che si lamentano di pagare in proporzione più di quelli del Sud pro­mettono battaglia: «Gli studi di settore sono uno strumento troppo rigido e l’onere della prova deve essere a carico dello Stato». 

Dario Di Vico, Corriere della Sera
06 maggio 2009

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