venerdì 7 ottobre 2011

Partite Iva, una vita spericolata!

Sono 8,8 milioni, continuano a crescere: +177 mila nel 2009. Scarsa attenzione, poca politica e rischi tutti i giorni


SI UTILIZZA QUESTO STRUMENTO PER RENDERE PIÙ FLESSIBILE IL MERCATO DEL LAVORO.

Il numero sicuramente fa impressione e non c'è alcun confronto possibile con altri Paesi del G8: a fine marzo 2009 risultavano aperte in Italia 8,8 milioni di partite Iva. Poco meno dell’intera popola­zione della Lombardia, anziani e bambini inclusi. Un esercito che non si è fatto mettere in fuga nemmeno dalla Grande Crisi. Le ultime stime provenienti dal­l’Agenzia delle Entrate ci dicono infatti che nei soli primi quattro mesi di quest’anno c’è stato un ulterio­re saldo positivo, le aperture hanno nettamente supe­rato le cessazioni d’attività: più 177 mila. Il ministro Giulio Tremonti parlandone nei giorni scorsi a Mila­no l’ha catalogato come un indice di vitalità, un altro segno della capacità di reazione dimostrata dal siste­ma Italia.
Ma chi sono i nostri connazionali che sfidando Prodotto interno lordo in caduta verticale e recessio­ne lunga hanno comunque deciso di mettersi in pro­prio, di sfidare i marosi del mercato? Il maggior con­tributo di nuove start up viene dalle attività immobi­liari e dai servizi alle imprese (+51 mila) ma ci sono 20 mila ditte individuali in più nell’agricoltura e 22 mila nelle costruzioni. Di più non è possibile saper­ne, vuoi perché si tratta di dati recentissimi vuoi so­prattutto perché quello delle partite Iva è un pianeta ancora poco conosciuto. Si è fatto in passato dell’in­telligente marketing politico sull’esistenza di un po­polo dell’Iva — soprattutto da parte del centrodestra — ma si fatica ancora ad incrociare con una parven­za di scientificità i dati che li riguardano. Eppure tra Camere di Commercio, Inps, Istat e ministro delle Fi­nanze i numeri abbondano — sostiene l’ex ministro Rino Formica — ma non c’è coordinamento e forse a ritardare i lavori delle istituzioni e dell’accademia c’è una piccola conventio ad excludendum. È la tesi di Giuseppe Bortolussi (Cgia Mestre) secondo la quale in Italia le analisi si fanno solo per le imprese che hanno da 20 addetti in su, perché «persiste un atteg­giamento snobistico da parte della cultura economi­ca ». Così capita che indagini diffuse pressoché nello stesso periodo sui medesimi fenomeni od analoghi dicano cose differenti come è accaduto di recente. Movimprese (Unioncamere) sostiene che con la Crisi le cessazioni prevalgono, al ministero risulta, sulla base del dato delle partita Iva già citato, esattamente il contrario. 
I «magnifici» anni 80 
Il fenomeno del popolo dell’Iva inizia negli anni 80 quando comincia quella che Giuseppe Vitaletti, l’eco­nomista che per lungo tempo lo ha studiato in virtù della stretta collaborazione con Tremonti, chiama «la ristrutturazione terzistica» dell’economia italia­na. Lo strumento tecnico per diventare imprenditori di se stessi si rivela agile e snello e comunque nel Paese c’è voglia di provare a diventare capitalisti per­sonali, a sfidare il classismo e a trovare un lavoro di­verso dall’impiego pubblico o dall’indossare la tuta blu con il logo della grande azienda. Non è un feno­meno all’americana ma tutto sommato un po’ gli so­miglia, è un liberismo implicito che seppur mai teo­rizzato finisce per guidare l’azione di tanta, tantissi­ma gente. Vitaletti ha avuto modo in passato di defi­nire i nuovi microimprenditori gente che «vive sulla voce, governa il lavoro parlando e non emanando re­golamenti scritti» proprio per sottolineare anche nei modelli di impresa la discontinuità, la provenienza dal mondo reale e non dai manuali di management.
Il fenomeno incontrò qualche simpatia negli am­bienti socialisti di allora — le destre erano stataliste e il garofano era grande amico della consulenza — e non è un caso che ancora oggi chi sostiene la lunga marcia del popolo delle partite Iva venga da lì o comunque con­servi il Dna di quel patrimonio culturale, un piccolo fil rouge che ha resistito nel tempo pas­sando attraverso la Prima Re­pubblica, i giudici, i governi tecnici e la nascita del bipolari­smo. Le poche indagini che ri­guardano le partite Iva si spin­gono a sostenere che in media lavorano 7 ore alla settimana in più dei lavoratori dipenden­ti ma sono più soddisfatti per­ché «hanno trovato il modo di farsi valere». Interrogati qual­che tempo fa dall’Ires-Cgil sul­l’eventualità di scambiare la loro attività in proprio con un’assunzione, il 43% sorprese i ricercatori ri­spondendo di non averne nessuna voglia. E così so­no rimasti a vivere sul filo del rasoio, sono «lavorato­ri autonomi di ceto medio» — come li ha classificati il sociologo Costanzo Ranci — che spesso vanno a carte quarantotto non per imperizia personale ma perché semplicemente un loro committente a monte o un fornitore a valle fallisce. 
Senza rappresentanza né lobby
In tutti questi anni nonostante che il popolo del­­l’Iva non sia mai dimagrito non ha però trovato mo­do di organizzarsi. Nemmeno con una newsletter che contasse davvero. Con i sindacati si guardano in cagnesco da sempre e si considerano avversari divisi da un muro, ma «non hanno svolto appariscenti ope­razioni di lobby» (Ranci) e non hanno veri e propri portavoce. In campagna elettorale qualche candidato soprattutto al Nord trova il modo di citarli nei propri comizi ma non c’è nemmeno un piccolo intergruppo parlamentare che almeno a parole si sia proposto di volerli rappresentare. La loro unica controparte è ri­masto lo Stato o meglio il fisco.
Naturalmente dentro il gran calderone delle parti­te Iva c’è di tutto. Non esiste un indice di rotazione che ci possa aiutare a capire quanto frequentate sia­no le loro porte girevoli, di sicuro però aperture e chiusure sono molto ravvicinate e in qualche caso spuntano affari poco leciti come le cosiddette frodi Carosello che servivano a gonfiare l’export e a rende­re difficile l’azione di repressione. Negli anni tra il ’98 e il 2003 fu notato come di partite Iva se ne apris­sero più al Sud che al Nord, addirittura 5 mila l’anno in Calabria e Campania e che alla fin fine si trattava di pizzerie al taglio, parrucchieri ed estetisti. Un ter­ziario a bassa intensità. Molto spesso, come annota Stefano Fassina, economista e consigliere di Vincen­zo Visco al ministero delle Finanze, «una partita Iva che abbia un solo committente è un controsenso, non vive liberamente sul mercato, è legato a doppio filo a un’unica azienda».
Un flash: la Rai è tra i principali datori di lavoro delle partite Iva. Ogni anno regola pagamenti a 380 mila di esse, si va dall’impresa terzista che fornisce telecamere o arredi alla tv di Stato fino ai coreografi e persino alle comparse che se vogliono apparire in una fiction devono tenere il loro registro. Negli ulti­mi anni, poi, si è sviluppata in quantità che non è facile fotografare anche un’altra tendenza: utilizzare la partita Iva come strumento per flessibilizzare il mercato del lavoro. Invece di assumere un dipenden­te — che lavora persino full time — gli si suggerisce di aprire la sua bella partita Iva. E in qualche caso gli si fornisce anche la consulenza amministrativa per riempire registri e moduli. Il settore maggiormente indiziato per quest’uso «improprio» è quello delle costruzioni e la vicenda è seguita con una certa trepidazione dai sindacati di ca­tegoria. Non è convinto che si tratti di un fenomeno di massa Renzo Bellicini, direttore dell’ufficio studi del Cresme che lo fa rientrare nella più ampia riorga­nizzazione produttiva del mattone italiano, «dopo Tangentopoli questo settore si è completamente bal­canizzato e la dimensione media delle imprese è di 2,4 addetti. Non c’erano più i grandi lavori e allora ci si è buttati a costruire il bagno della signora Maria». Però i sindacalisti, specie del Nord e del Nord Est, come Luigi Copiello segretario della Cisl Veneto, se­gnalano come questa frantumazione stia facendo se­gnare un’ulteriore accelerazione e stia sminuzzando anche i rapporti di lavoro. «Ma le pare che esistano i muratori a part time?». In Veneto e Friuli può capita­re così che cittadini della ex Jugoslavia per dare l’into­naco a una casa aprano la partita Iva per assecondare una specie di outsourcing amministrativo delle im­prese che per questa via risparmiano all’incirca dodi­ci- tredici punti di contribuzione.
Due milioni sono inattive
Ma proviamo a vedere meglio dentro l’universo di quelle 8,8 milioni di partite Iva. La cautela statistica è d’obbligo e tutte le fonti istituzionali preferiscono parlare di stime per la giusta preoccupazione di non sbagliare. E allora quante sono veramente le partite Iva attive? Se prendiamo gli ultimi dati ufficiali, quel­li pubblicati poche settimane fa e che si riferiscono alle dichiarazioni fiscali presentate nel 2007 a versare l’Iva — e ad essere quindi in piena attività — sono 5,4 milioni tra microimprenditori e professionisti. A questi si possono aggiungere almeno un milione tra medici, tassisti, agricoltori e imprese di pompe fune­bri che sono esentati dal presentare la dichiarazione ma hanno la loro brava partita Iva e si arriva così a un totale vicino a 6,4-6,5 milioni. Non ci sono statisti­che internazionali comparabili ma chiunque abbia minimamente studiato il fenomeno sostiene che tan­ta disponibilità di gente a correre il rischio d’impresa è un ben di Dio che nessun Paese altro ha.
I «senza nome» dell’economia. Naturalmente questi 6,5 milioni di partite Iva in attività vanno divise a loro volta tra ditte individuali, società di persone e società di capitale (70% le prime e 15% ciascuno le altre) ma il risultato vero resta il medesimo: l’Italia gode di una riserva di imprendito­rialità straordinaria. Che però rischia se lasciata a se stessa, come dice Vitaletti, di «operare un rigetto strutturale della politica». Una separazione testimo­niata anche dalle carenze di lessico. Li si identifica come «Partite Iva» come se si chiamassero i giornali­sti «Gli articolo uno» perché la loro condizione di di­pendenti è regolata dal primo articolo del Ccnl o an­cora se si identificassero tutti i lavoratori dipendenti con l’appellativo «I modello centouno», prendendo il termine dal modulo che ricevono dalle aziende ma­dri quando occorre presentare al fisco la dichiarazio­ne dei redditi. L’immaginazione sociopolitica, pur co­sì fertile in Italia, si è come fermata a termini come «capitalisti personali» o «postfordisti» — neologi­smo amato dalla sinistra che anche in questo caso conferma di avere nel mito Ford l’alfa e omega del suo linguaggio economico — non hanno mai trova­to grande successo e popolarità. Una storia speculare a quella del terziario italiano che dovrebbe avere al­meno 40 anni e invece è rimasto un eterno adolescen­te. «Puoi avere la Mercedes e la villetta ma se soffri della mancanza di considerazione resti comunque un outsider» commenta Bortolussi, che racconta an­che come molti avvocati e commercialisti chiedano, declassandosi, un posto da impiegato ma vogliano a tutti i costi restare iscritti all’albo professionale. Per­ché ai loro occhi comunque fa status e anche per non abdicare definitivamente all’eventualità di mettersi in proprio. È chiaro che 8,8 milioni di partite Iva, tolti anche i due milioni di inattive o che comunque sfuggono ai rilievi del fisco, finiscono per farsi tra loro una con­correnza bestiale. Si parla tanto di liberaliz­zazioni ma è questo il settore in cui in Italia la concorrenza è più spietata. Quasi il pro­totipo della società del rischio. Ma nono­stante non esistano barriere all’ingresso come sottolineano tut­ti gli osservatori — da Vitaletti a Fassina — e la battaglia per soprav­vivere sia pane quoti­diano, il popolo del­­l’Iva non ha mai susci­tato le simpatie dei mercatisti più intran­sigenti che l’hanno considerato da sempre il retrobot­tega dell’economia, una materia di cui non è serio e nobile occuparsi. Certo se si guarda alla distribuzio­ne sul territorio — come invita a fare Formica pri­ma di pronunciare giudizi ultimativi — le in­congruenze saltano fuori. In testa c’è la Lombardia, che da so­la ospita quasi il 20% del popolo dell’Iva, il Veneto ne ha un nume­ro inferiore sia alla Campania, sia al Lazio. Secondo l’ex mini­stro un vero check up del feno­meno Iva dovrebbe essere condot­to localmente incrociando i dati del­le aperture, il gettito e la produzione del territorio. Per questa via si arriverebbe a circoscrivere le aree grigie e a ripristinare «lo spirito originario, quello di favorire la vitalità im­prenditoriale ». Ma proprio per questo, aggiunge For­mica, è ormai necessario riformare il modello favo­rendo gli accorpamenti e rinunciando alla cifra mon­stre degli 8,8 milioni. Nell’attesa di un futuro migliore il centrodestra al potere è convinto che, grazie all’introduzione del forfettone per i redditi sotto i 30 mila euro e alla possibilità di splittare il reddito tra moglie e mari­to, molto — se non moltissimo — si sia fatto in termini di fisco leggero e di conseguenza qualsiasi orientamento antigovernativo sarebbe quantome­no ingiustificato. Non la pensano così alla Cgia di Mestre e mantengono un atteggiamento di fiera op­posizione alla riformulazione in atto per gli studi di settore, lo strumento fiscale che serve a misurare su base statistica entrate e fatturato delle partite Iva. «C’è il rischio concreto di una moria simile a quella che ci fu con la minimum tax» dicono. E i micro-imprenditori del Nord Est che si lamentano di pagare in proporzione più di quelli del Sud pro­mettono battaglia: «Gli studi di settore sono uno strumento troppo rigido e l’onere della prova deve essere a carico dello Stato». 

Dario Di Vico, Corriere della Sera
06 maggio 2009

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Il mondo del lavoro italiano: i drammatici dati 2010...



Anche noi abbiamo deciso di partecipare al balletto delle cifre del mondo del lavoro italiano e diamo il nostro contributo estraendo dati dal capiente e disponibile cilindro della statistica.

Et voilà! Ecco i numeri (rigorosamente approssimativi) per il 2010:

*   2'100'000: media disoccupati su base annua;
**    700'000: i neet, giovani tra i 15 e i 29 anni fuori dal circuito formativo e lavorativo;
     2'700'000: gli inattivi, coloro che non cercano attivamente lavoro, ma sono disponibili a lavorare;
***  576'455: lavoratori in cassa integrazione a zero ore per l'intero anno.

Vi bastano? A noi sì. Comunque non preoccupatevi, il sistema Italia è solido e ha tenuto... non per niente la disoccupazione italiana nel 2010 sarebbe stata al di sotto della media europea, in base ai dati Istat.

Illusioni e mistificazioni della statistica...
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*      di cui circa 1'140'000, disoccupati under 35 e circa 960'000 disoccupati over 35.
**    in teoria sarebbero 2'100'000, ma 1/3 (700'000) sono già compresi tra i disoccupati under 35, e 1/3 (700’000) nella zona grigia degli inattivi.
***  si stima siano oltre 2'000'000, nel corso del 2010, i lavoratori coinvolti in processi di cassa integrazione. Fonte CGIL







La DISOCCUPAZIONE ADULTA... quella di cui più si tace! LO SAI CHE ?


LO SAI CHE?

Dei due milioni e centomila disoccupati ufficialmente censiti nel 2010 dall'Istat, circa il 45% aveva più di 35 anni.

Del milione di disoccupati di lunga durata che cercano lavoro da oltre un anno, quasi il 43% ha un'età compresa tra i 35 e i 54 anni.

"La crescita più consistente di disoccupazione nel 2010 ha riguardato la fascia tra i 30 e i 49 anni, solo in seconda battuta quella dei più giovani". Lo dice il Rapporto annuale Istat, presentato il 23 maggio c.a. a Montecitorio.

Secondo l'ultimo rapporto IREF-ACLI sul "lavoro scomposto", il lavoro atipico, il lavoro temporaneo colpiscono FORTEMENTE anche i lavoratori ADULTI !!
Il 48% dei  contratti precari, difatti, sono stipulati tra datori di lavoro e lavoratori di età compresa tra i 30 e i 49 ANNI !

In base a un'indagine dell'Associazione Direttori Risorse Umane (G.I.D.P./H.R.D.A.), le nuove risorse umane da assumere per le aziende saranno soprattutto giovani: il 75%, infatti, dovrà avere un'età compresa tra i 25 e i 34 anni; il 14% tra i 35 e i 44 anni e solo l'1% più di 45 anni.

Una rilevazione del 2009 ad opera della SDA Bocconi e di Astra Demoskopea su 5'000 annunci di lavoro pubblicati dai giornali evidenziava che quasi il 60% delle inserzioni poneva un vincolo di età che nella maggioranza dei casi si attestava attorno ai 35 anni.

Le risorse messe a disposizione dal nostro Paese per i disoccupati nel 2008 hanno toccato lo 0,5% del PIL. In pratica, per ogni disoccupato italiano sono stati spesi in media 4'691 euro, contro i 17'921 per il disoccupato irlandese, i 16'652 per quello austriaco, i 15'570 per quello tedesco e gli 11'483 per quello francese... (dati Cgia Mestre)

"Una chicca": a Treviso, nel cuore dell'opulento Veneto, un cinquantenne che avesse perso il lavoro aveva nel 2007 il 32% di possibilità di ritrovarlo; nel 2010 solo l'8% !!


DISOCCUPAZIONE ADULTA: Mai Più Disoccupati intervista Stefano Giusti, Presidente di Atdal Over40


Luchino Galli, per Mai Più Disoccupati, intervista il Dottor Stefano Giusti.
16 settembre 2011

Dottor Giusti, quando nasce l’associazione Atdal Over 40, e con che finalità e obiettivi? Quali  iniziative ed eventi avete realizzato e quali sono in programmazione?

L'associazione Atdal Over 40 (Atdal sta per Associazione Tutela dei Diritti dei Lavoratori) nasce a Milano nel 2002 su iniziativa di Armando Rinaldi, con base volontaria, per sensibilizzare le istituzioni sul problema dell'espulsione dei lavoratori in età matura. Problema che ne porta un altro con sé, quello della difficilissima se non impossibile ricollocazione di queste persone. Il nostro slogan "Troppo vecchi per lavorare, troppo giovani per la pensione" riassume precisamente il cuore del problema e il nostro pensiero.

  
In questi anni abbiamo realizzato tante iniziative da quelle di pubblicizzazione del problema tramite convegni e seminari sul tema, a quelle più pratiche di servizio.
In tre occasioni ATDAL è stata ricevuta al Senato ed ha presentato relazioni sul fenomeno dei disoccupati over40 e una serie di proposte di intervento legislativo. Dalle nostre proposte in tema di diritto al lavoro è nato un Disegno di Legge a firma del Sen. Pizzinato, mai discusso nella passata legislatura e riproposto in seguito al Senato dal Senatore Giorgio Roilo e alla Camera dall’Onorevole Gloria Buffo.  Nel corso della sua attività ATDAL ha promosso raccolte di firme su specifiche Petizioni ai Presidenti di Camera e Senato. Le oltre 8.000 firme raccolte sono state consegnate nel Maggio del 2003, Aprile 2004 e Ottobre 2006.
Poi abbiamo attivato iniziative pratiche come gli sportelli di orientamento e sostegno, ed accordi con Enti e istituzioni per corsi di formazione mirati direttamente al ricollocamento degli over 40. Va detto che noi non siamo e non vogliamo essere un’agenzia di collocamento  ma un punto di riferimento per tutti coloro che, vivono questo problema e sono abbandonati dalle istituzioni e da chi, fino al giorno prima, ha usufruito di loro come forza lavoro sia manuale che intellettuale. In futuro ci riserviamo di continuare su questa strada che fino ad oggi ha ottenuto se non altro il risultato di aver fatto parlare di questo problema sempre nascosto. In programma abbiamo tante iniziative soprattutto pubbliche per sensibilizzare al problema.

La disoccupazione adulta è un fenomeno sociale che sconvolge la vita delle persone, e ne devasta le famiglie; quanti sono i disoccupati adulti in Italia?

Nessun Ente di ricerca ha mai fatto una campionatura esatta su questo fenomeno. I dati Istat non contemplano questa fascia e quindi i numeri che circolano sono  quelli che vengono raccolti  da Enti e Istituzioni locali (soprattutto regionali) che cercano di definire quantitativamente il problema  e dai dati che faticosamente riusciamo a mettere insieme nelle nostre strutture territoriali. Si può tranquillamente affermare che la disoccupazione Over 40 riguarda almeno 1,5 milioni di persone. E ovviamente a cascata, dietro questo dato ci sono i nuclei familiari. Fare il calcolo di cosa significhi questo dramma sociale è abbastanza semplice anche se le Istituzioni non vogliono riconoscerlo ufficialmente…

Quali sono le dinamiche e i caratteri della disoccupazione adulta?

L’insorgere del problema della ricollocazione lavorativa degli “over 40” risale alla metà degli anni ’90, anche se la questione ha cominciato a farsi sentire in misura più grave e patologica con l’arrivo del nuovo millennio. Strutturalmente il fenomeno nasce come maldestra conseguenza di una delle varie e cicliche enunciazioni teoriche di organizzazione aziendale, volte a ridefinire equilibri economici sempre nuovi e spesso contrari ai precedenti. In questo caso la matrice del fenomeno è riconducibile alla teoria dell’ “Old Out Young In”, tradotto letteralmente “vecchi fuori, giovani dentro”. È una teoria organizzativa che viene dall’altra parte dell’Oceano, da aree economiche come quelle americane, giapponesi e sud-coreane e naturalmente prende piede in Europa con circa dieci anni di ritardo, quando in quei paesi viene già vista con sospetto e più volte rivisitata e modificata.
Come tutte le teorie importate belluinamente, non tiene conto della diversa situazione cultural-economica dell’Europa e nel nostro caso dell’Italia, ma diventa in breve tempo una moda, una parola d’ordine aziendale da tutti accettata e vista come funzionale a chissà quale sviluppo. Ovviamente mai nessuno spiega effettivamente perché debba funzionare e su quali basi oggettive, però la si accetta come indispensabile e funzionante e se ne giustifica l’uso con il solito gioco di prestigio tautologico per cui la si applica perché funziona e funziona in quanto si applica (!) ignorando completamente il salato prezzo sociale che porta con sé.   La sua conseguenza più grave, è la difficoltà (per non chiamarla impossibilità) di ricollocazione per tutta questa fascia di lavoratori discriminata in tutte le maniere. Basta guardare i giornali specializzati e scoprire che oltre il 60% degli annunci contiene limiti di età compresi tra i 25 e i 35 anni. Limiti che oltre ad essere pazzeschi da un punto di vista sociale sono anche fuorilegge. Esiste infatti un Decreto Legislativo del 9 luglio 2003, n. 216 "Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro" pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 187 del 13 agosto 2003 che all’articolo 3 recita: 
Il principio di parità di trattamento senza distinzione di età si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato con specifico riferimento alle seguenti aree: accesso all'occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione…”
Insomma è illegittimo discriminare in base all’età e mettere un limite nelle offerte di lavoro, ma lo fanno quasi tutti, aziende multinazionali o piccole società, agenzie per il lavoro e grandi società di head hunting. Naturalmente non esiste nessun garante o figura che faccia rispettare questa legge dello Stato. L’anno scorso il Senato della Repubblica ha bandito un concorso per l’assunzione di personale impiegatizio. Tale concorso, in barba alle leggi vigenti, conteneva il limite di età fissato tra i 18 ed i 40 anni.
È chiaro che non basta togliere una riga con scritto “età compresa tra x ed y” per eliminare il problema ma riuscire a far rispettare le leggi sarebbe già un buon punto di partenza per arrivare a considerare il lavoratore Over 40, sia uomo che donna, ancora un protagonista attivo. Oltretutto, paradosso nel paradosso, in Italia come in tutti i paesi industrializzati, la lunghezza del periodo scolastico formativo anche per le posizioni medie, si prolunga ormai fino quasi ai trent’anni (laurea, + master + stage), in presenza di una dichiarata obsolescenza professionale e conseguente rischio licenziamento, che si presenta non appena si toccano i 40!
In questo deserto sociale, le uniche forme di assistenza vengono da organizzazioni di volontariato, spesso costituite da persone che hanno vissuto questo dramma e che affrontano in prima istanza questo problema. Fino a quando le istituzioni continueranno a far finta di niente?

E’ un dato di fatto che la disoccupazione adulta sia misconosciuta: sottaciuta dai mass media, ignorata dalla politica e trascurata dagli stessi sindacati; quali le ragioni e i motivi?

Non c’è un’unica causa  ma diversi fattori concomitanti. I mass media spesso peccano di superficialità e non fanno lo sforzo di diversificare e approfondire i temi. Preferiscono cavalcare le mode e parlare di “disoccupazione giovanile” come se a 35 o 40 anni si fosse anziani. I sindacati hanno una visione del problema obsoleta: loro difendono principalmente il lavoro, chi lo perde esce fuori dai loro schemi e non viene troppo considerato. Oltretutto molti dei loro dirigenti pensano ancora al disoccupato over 40 su stereotipi superati: non sa usare il computer,  non conosce l’inglese. Non vedono o a volte fanno finta di non vedere la trasformazione del problema. La politica beh, che dire, ormai politici e gruppi di potere partitico ragionano solo per numeri: i disoccupati Over 40 per ora non riescono a fare lobby, a far capire il loro peso politico ed elettorale. Quando lo faranno i politici li inseguiranno col cappello in mano… Su quest’ultimo punto poi si inseriscono anche le “responsabilità” dei disoccupati. Spesso molte persone che hanno questo problema, specie quelle che non sono state estromesse da grandi ristrutturazioni  industriali tipo Alitalia ma hanno perso individualmente il lavoro, quasi si vergognano della loro situazione, ne fanno una colpa non si manifestano pubblicamente. Così facendo rendono quasi impossibile far emergere la reale portata del problema.

Le persone discriminate per motivi anagrafici nel mercato del lavoro sono sempre più giovani: over 50, over 40, ed ora anche over 35. Perché questa deriva, e dove ci porterà?

La deriva rischia di essere inarrestabile e di finire per travolgere tutta la popolazione lavorativa e rendere i luoghi di lavoro ingestibili . Questo principalmente per via di alcune scellerate politiche del lavoro che permettono sgravi fiscali per fasce di età giovanili rendendo così quasi impossibile la ricollocazione dopo i 35 anni, Le stesse politiche che hanno usato la flessibilità per destrutturare il Diritto del Lavoro creando un universo di precarietà che inizia in età giovanile e continua in maniera sempre più esasperata con l’aumentare dell’età, finendo per emarginare chi perde il lavoro dopo i 40 anni. Tutto questo mentre gli stessi politici su altri tavoli tentano in tutti i modi di allungare l’età pensionabile. Una contraddizione insanabile:  tanto per fare un esempio pratico citiamo Montezemolo che di Confindustria è stato presidente nel periodo 2005-2007. Da presidente  degli industriali si batteva  strenuamente  per alzare l’età pensionabile e quindi per trattenere più tempo possibile i lavoratori in azienda. Nello stesso periodo come membro del CdA della Fiat  si prodigava  altrettanto strenuamente per ottenere una serie di prepensionamenti per i lavoratori della suddetta azienda, quindi mandarli a casa il prima possibile!
Non manca all’appello delle contraddizioni l’attuale presidente di Confindustria Marcegaglia che ha recentemente dichiarato che “Sull’innalzamento dell’età pensionabile dobbiamo seguire gli altri paesi dell'Unione Europea". Naturalmente nelle sue aziende la Marcegaglia se ne guarda bene dall’applicare le strategie nord europee di incentivazione all’occupazione e persegue invece la politica più in voga degli ultimi decenni, quella che vede estromettere i lavoratori in età matura a favore di quelli più giovani. Anche lei ci dovrebbe anche spiegare come pensa che queste persone possano arrivarci alla pensione, considerando che per loro è difficilissimo ritrovare lavoro e che quasi nessuno ha un qualche sostegno al reddito. Ma forse il piano è proprio questo; a forza di allungare l’età pensionabile si spera che il lavoratore alla pensione non ci arrivi proprio così da risolvere il problema dei conti alla radice, non pagandole proprio.

La disoccupazione, nella fascia d’età tra i 30 e i 49 anni, è in costante crescita; per l’economista Francesco Daveri “potremmo assistere a una nuova emergenza, quella di un forte aumento di disoccupazione tra gli over 50” (La Stampa, 24 maggio 2011). A Suo avviso, quali politiche vanno attuate per contrastare efficacemente la disoccupazione adulta?

Atdal su questo ha una politica propositiva ben chiara con proposte mirate a combattere questa situazione. Atdal 40 ritiene che il discorso di un reddito sganciato dal lavoro debba essere una delle soluzioni con cui affrontare  le nuove forme di occupazione precaria e disoccupazione strutturale. Per questo avanza alcune proposte operative:
A) Istituzione di una indennità di disoccupazione generalizzata per tutti coloro che si trovano privi di lavoro calcolata in percentuale su l’ultimo salario percepito e comunque tale da garantire un reddito dignitoso e per un periodo di tempo idoneo a sostenere la ricerca senza angoscia di un nuovo lavoro;
B) L’ indennità di disoccupazione deve entrare in vigore anche per coloro che svolgono lavori precari nei periodi di inattività e deve prevedere la corresponsione dei contributi previdenziali figurativi;
C) Accanto all’indennità di disoccupazione occorre prevedere un sostegno economico per la copertura dei versamenti previdenziali volontari per disoccupati over50 che abbiano maturato almeno 30 anni di versamenti contributivi o, in alternativa, prevedere percorsi di accesso anticipato alla pensione per disoccupati over50 di lunga durata, considerati non più ricollocabili, eventualmente prevedendo una trattenuta sulla pensione pari ai contributi che dovrebbero ancora versare fino al raggiungimento dei requisiti anagrafici o contributivi di legge.

Nell’attuale contesto economico, la disoccupazione non è una colpa: persone e famiglie la subiscono. Come Lei puntualizza: “la società del lavoro si è trasformata e il lavoro stesso in alcuni casi tende a scomparire o quanto meno a riguardare la vita di sempre meno persone”. Tuttavia, molti vivono la disoccupazione con rassegnazione e vergogna, rinunciando a denunciarla e combatterla, accentuando il proprio isolamento. Dottor Giusti, cosa può convincere il disoccupato a cambiare atteggiamento e modificare il proprio comportamento?

Come dicevamo anche prima, solo convincendosi sull’utilità di far emergere le proprie situazioni, le proprie storie. Se questa massa per ora composta solo di individui che tendono ad agire isolatamente, saprà identificarsi e sentire una sorta di coscienza collettiva allora verrà anche considerata all’esterno. Poi, in termini anche utilitaristici, “fare rete” con altre persone nella stessa situazione, significa avere più possibilità di avere accesso a fonti utili per la ricollocazione. Insomma solo uscendo fuori dall’isolamento si ha la possibilità di far sentire la propria voce.  

Lei scrive: “nel nostro strano paese il 69% dei disoccupati non ha nessun accesso a forme di sostegno reddituale né di ammortizzatore sociale. Secondo l’ultimo monitoraggio del Ministero del Lavoro, gli ammortizzatori sociali italiani coprono solo il 31% dei disoccupati con sussidi di varia natura. Gli altri devono arrangiarsi da soli”. Infatti, come ha evidenziato la CGIA (Associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre, il welfare italiano è caratterizzato da un pacchetto di ammortizzatori sociali riservato a determinate categorie di lavoratori: cassa integrazione ordinaria, straordinaria, mobilità, etc.; questi ammortizzatori intervengono - osserva il segretario Giuseppe Bortolussi -  “prima della perdita definitiva del posto di lavoro”, “prima che il rapporto tra lavoratore e impresa sia compromesso definitivamente”. Inoltre, le stesse indennità di disoccupazione sono temporanee e il loro importo è inversamente proporzionale al tempo di durata dell’inattività lavorativa! Tuttavia in Italia, come Lei precisa, “tra coloro che perdono il lavoro, solo il 25% lo ritrova entro i primi sei mesi, per gli altri le attese oltrepassano anche l’anno, con esiti ovviamente disastrosi sotto tutti i punti di vista”. In un tessuto socio economico caratterizzato da alta disoccupazione e precarizzazione crescente, diffuse e strutturali, è ormai prioritaria la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali, per assicurare protezione ai tanti (troppi) che oggi ne sono esclusi!  Come realizzarla, e con quali risorse?

In Italia ogni volta che si parla di reddito di sostegno, di cittadinanza, o di qualsiasi altra forma di supporto, ci si scontra subito col discorso del debito pubblico e con l’impossibilità di mettere mani a riforme strutturali. Recentemente la Banca Mondiale ha calcolato che il costo della corruzione in Italia si aggira intorno ai 50 miliardi di Euro. L'evasione fiscale, combattuta nel nostro paese sempre a parole ma raramente nei fatti se non con scudi e condoni tesi a favorire chi aveva già allegramente evaso o esportato capitali all’estero,  sfiora i 250 miliardi di Euro. Volendo, i soldi per una riforma veramente rivoluzionaria ci sarebbe dove prenderli, senza contare poi che in Italia la spesa sociale (al netto della spesa pensionistica e delle indennità di disoccupazione riservate a pochi) è una delle più basse d’Europa, pari al 9,6% del Pil. Il problema dei soldi è un falso problema.


Mi domando chi, o che cosa potrà salvare noi…


“Vai…! Vai…! 
Prendi…! Prendi…!
Porta…! Porta…!”

Sono i comandi impartiti ai simpatici cani dell’Unità Cinofila di Addestramento della Protezione Civile di Pisa.
Una sorpresa trovarli qui, sulla spiaggia di Marina di Vecchiano… siamo venuti per fare quattro passi a pochi chilometri dalla città, qui dove il mondo cambia.

Grazie a queste scene un po’ insolite riusciamo a distrarci dai nostri pensieri.
Per chi è disoccupato il tempo libero esiste solo in apparenza!!
Ovunque tu sia, ovunque tu vada, l’assillo dei tuoi pensieri ti insegue…

Ma per una volta la spiaggia torna ad essere di sabbia, la brezza sfiora la pelle, e il rumore delle onde risuona nell’aria. Intorno, l’abbaiare dei cani operosi, instancabili e desiderosi di rendersi utili.
Ti indico la macchina fotografica abbandonata sul fondo della mia borsa… esiti…
Sono contenta di vedertela afferrare, decidendo istintivamente di non perdere questi istanti, e di fissarli nei tuoi “scatti”. Mi dici che il sole ha un forte riverbero, e ti ascolto parlare di argomenti diversi, distanti dalla nostra quotidianità.

Il cane in acqua nuota vicino al proprio addestratore, quelli a riva fanno riecheggiare i loro latrati nella speranza di venire slegati e potersi tuffare.

Si fa tardi, e il sole inizia il suo viaggio curvo di fuoco, oltre l’orizzonte.
Ci prepariamo al rientro.
Un ultimo sguardo a un manichino, lo stesso che viene tuffato in acqua e “salvato” ad ogni addestramento: ha occhi spenti e braccia allargate come su di una croce.
Mentre ci allontaniamo a passi lenti, godendo gli ultimi istanti della sera fresca che scende sul mare, mi domando chi, o che cosa potrà salvare noi…

Lettera firmata, Pisa

















Sono disoccupata, ma fra pochi giorni il mio telefono squillerà e tornerò ad essere un'insegnante precaria!


Sono disoccupata, ma fra pochi giorni il mio telefono squillerà e tornerò ad essere un'insegnante precaria.

Il cambio di condizione che sperimento ogni anno, al termine delle lezioni e all'inizio dell'anno scolastico, è un cambio notevolissimo!! Strapperò finalmente al nulla un'identità sociale, e per la mia piccola famiglia, che vive di quello che porto a casa, qualche sicurezza...

Mi strapperà dal nulla la telefonata della segretaria: "Signora, è libera?"

Certo che sono libera!
… Oggi, dove devo andare? Dove mi mandate, questa mattina?

Non nascondo l'ansia legata al fatto che ogni due-tre giorni al massimo, salvo eccezioni, la classe cambia, i bambini non sono gli stessi, hanno problemi diversi che dovrò intuire al volo!
Incontrerò anche bambini disabili, alcuni dei quali non certificati, e quando sarà previsto l'insegnante di sostegno comunque non seguirà il bambino per le ore di cui avrebbe realmente bisogno per vedere garantito il proprio diritto ad apprendere e a integrarsi... la scuola pubblica non ha denaro a sufficienza!

Dal canto mio non posso permettermi un navigatore satellitare: scaricherò qualche mappa un po' approssimativa da google, per raggiungere le scuole, e sono già fortunata! Quest'anno mi preoccupa la mia automobile: da quanto tempo non le faccio un bel check up? Dove li trovo i soldi necessari?!? So che il cambio ha dei problemi, ma...

E come farò se verrà a nevicare, con le gomme ogni giorno più lisce?

Eppure non ho risparmi da parte; continuo a pagare un piccolo, minuscolo debito che per me ha un peso esagerato, e ogni giorno, dopo i primi attimi di sconforto, mi dico che non posso fare altro che alzare la testa e credere che prima o poi la mia situazione migliorerà!

I Vostri bambini li adoro, uno per uno: è grazie a loro che vado avanti... in ogni senso!

Sono loro che mi strappano al nulla!


Lettera firmata di un'Amica